Il premer israeliano per tornare al governo avrà bisogno dei voti del nuovo partito moderato del conduttore tv Yair Lapid. E molti giovani hanno offerto il loro diritto di voto ai palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiorndania che non hanno potuto votare
di Enrcio Oliari
Ha vinto ma, smentendo i sondaggi, non ha sfondato l’alleanza l’alleanza Likud-Yisrael Beitenu guidata dal premier di Benjamin Netanyahu: nelle elezioni per il rinnovo della Knesset, che si sono tenute lo scorso 22 gennaio, ai conservatori sono andati soli 60 seggi sui 120 disponibili, rendendo così necessario il dialogo (ed il compromesso) con le formazioni di centro, a cominciare con la vera rivelazione di questa tornata elettorale, il partito centrista Yesh Atid del presentatore televisivo Yair Lapid, il quale, sostenuto dal ceto medio e dagli “indignati” della laica Tel Aviv, ha saputo conquistare ben 19 seggi; il resto dei posti disponibili in Parlamento sono andati all’estrema sinistra del Meretz, alla destra religiosa dello Shas e dello United Torah Judaism, alle formazioni arabo-israeliane della United Araab List e di Balad, ai centristi di Hatnuah, a Hadash e due seggi a Kadima.
Netanyahu si sente sicuro, “sarò ancora premier, voglio creare una coalizione più ampia possibile”, ma forse gli israeliani degli insediamenti nei Territori occupati non hanno creduto del tutto all’uomo di ghiaccio, che solo due giorni prima delle elezioni aveva dichiarato al giornale ‘Makor Rishon’ l’intenzione di non mollare sulle colonie e che “i tempi in cui i bulldozer sradicavano ebrei sono dietro di noi, non davanti a noi: noi abbiamo rafforzato gli insediamenti”; ed ancora: “La moratoria (con cui sé stata sospesa la costruzione di nuovi insediamenti, ndr.) si è esaurita. Ha dimostrato che i palestinesi non sono interessati” (alla ripresa di negoziati, ndr), anche perché “l’Autorità nazionale palestinese non è disposta ad impegnarsi alla conclusione del conflitto con Israele, né a riconoscere lo Stato ebraico entro alcun confine”.
In realtà è proprio negli insediamenti della Cisgiordania che si respira una certa assuefazione della politica del muso duro, specialmente ora che la Palestina è stata riconosciuta quale Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite, al pari del Vaticano.
Ed anche fra i giovani delle città c’è voglia di una nuova era di tranquillità e di pace, tanto che fino a poco prima del voto si sono moltiplicate in rete iniziative come la “Real Democracy”, che invitava i giovani ad offrire il proprio voto ai palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, i quali non avevano il diritto di esprimersi nella tornata elettorale.
A dare addosso a Netanyahu prima del voto c’è stato anche il predecessore Ehud Olmert, il quale, pur non essendo candidato, ha duramente attaccato l’operato dell’esecutivo ormai precedente: oltre a riservare accuse pesanti per aver sprecato risorse economiche per circa due miliardi di euro in investimenti militari non necessari, ha anche affermato che “il governo Netanyahu rigetta la pace e non è interessato all’accordo” promosso anche da Stati Uniti ed Europa, specialmente se posto in relazione all’attuale crisi diplomatica con l’Iran.
Anche il necessario accordo con Lapid potrebbe stemprare l’aggressività del Likud: il capo del Yesh Atid, che in campagna elettorale ha sempre cercato di schivare sia la questione palestinese che quella iraniana (croce e delizia di Netanyahu), avrebbe già chiesto per sé il ministero degli Esteri.