Sette giorni alla scoperta dell’Italia per lo storico gruppo progressive: una festa per celebrare i trent’anni di Thick As a Brick Le Città lo intervista: “Il successo è bello ma è importante continuare a guardare oltre casa propria”
di Luca Bussoletti
C’è gente che la musica l’ha costruita con le proprie mani. Nota dopo nota, concerto dopo concerto. Appartiene a questo esercito di artisti dell’immaginario collettivo Ian Anderson che, coi Jethro Tull, ha accompagnato e allietato tre generazioni. Dal 30 novembre al 6 dicembre è passato in Italia con un tour che festeggia i quarant’anni di Thick As A Brick.
Orgoglioso di questo traguardo?
“Posso dirmi fortunato, ho ancora il mio lavoro e mi diverto a farlo. Non do mai nulla per scontato e mi rendo conto della mia condizione di privilegiato in un mondo in cui i giovani faticano a trovare il loro spazio”.
Ma non sarà solo fortuna…
“È una componente importante. Ammetto con un pizzico d’orgoglio che ci deve essere per forza anche una base di talento per avere una carriera come la mia ma da sola non basterebbe. Il mondo non se la passa bene”.
Quindi ad una star come lei interessa quello che accade intorno a lei nel mondo?
“Non potrebbe essere altrimenti. Sono un uomo che vive in una società globale. Per esempio sono stato curioso di vedere coi miei occhi le difficoltà del vostro Paese di cui leggo spesso sui giornali”.
Lei ha venduto 65 milioni di dischi ed ha suonato in più di tremila concerti in quarantacinque paesi diversi. Non trova anche lei che siano numeri impressionanti?
“Sarei ipocrita a dire che i numeri non hanno un peso ma solo se si parla di discografia. Servono agli addetti ai lavori per giustificare le loro operazioni di marketing ma la mia testa non ci pensa proprio. Sono da sempre un curioso e la mia attenzione è rivolta oltre casa mia”.
Tempo fa dichiarava che i Beatles sarebbero rimasti alla storia mentre i Codplay no. Lo crede ancora?
“Sì ma ne approfitto per spiegare meglio questa mia dichiarazione. Non ho nulla contro i Coldplay, Chris Martin lo conosco e lo stimo molto. Cercavo di usare il loro esempio per spiegare che negli anni sessanta eravamo in mezzo ad un mare di creatività e si poteva inventare un suono. Ora che è stato fatto tutto, ci si può solo limitare solo a fare bene qualcosa di già esistente. È un po’ diverso”.
E i Niravana come li commenta?
“Effettivamente è stata una band innovativa. In quel caso comunque la novità non è stata costruttiva bensì distruttiva. Il grunge ha smontato pezzo dopo pezzo il pop degli anni ottanta creando un nuovo linguaggio. Ma per sottrazione”.
Come risponde a chi l’accusa di essere un po’ troppo nostalgico?
“Che è una critica stupida. Io amo camminare nella memoria perché credo che dalla memoria si impara ad affrontare il presente e il futuro. I Jethro Tull hanno contribuito a fare la storia della musica ed è qualcosa che mi rende orgoglioso ma qualcuno utilizza questa cosa per etichettarci come passato e lasciarci impolverare su qualche scaffale. La verità è che in questo percorso c’è un filo che non si spezza mai e quel filo è la musica”.
Che rapporto ha con i suoi fan e con le loro richieste ai concerti?
“Non ci sono richieste ai miei concerti perché chi mi conosce veramente sa che non le accetterei volentieri. Sul palco io penso a me, per fare un bel live ho necessità di stare a posto, ed è l’unica cosa a cui penso. Suonare quel che ti chiedono gli altri, se non lo vuoi fare, è come fingere un orgasmo. È stupido e inutile”.
Invece il suo rapporto con l’immagine? Reputa stupida anche lei?
“L’immagine no, è il nostro biglietto da visita. Spesso però si mischia con le maschere che alcuni indossano e là il discorso cambia”.
Lei di maschere ne ha?
“No, e sono orgoglioso. Cerco sempre di essere me stesso, mi vesto come voglio e dico quel che voglio senza pensare a quello che vorrebbe lo showbusiness. Il massimo della mia sincerità ce l’ho quando sono su un palcoscenico. Quando suono mi apro del tutto e mi rappresento esattamente per quello che sono”.