“Il giornalismo come lo sognavamo non esiste più. I giovani guardano agli influencer. La multimedialità abbatte le barriere ma non dimentichiamo il fattore umano”. Così, Andrea Titti, apprezzato giornalista e direttore di una importante testata on line.
Direttore, Come definiresti il giornalismo romano in questo momento?
“In modo non dissimile da quello di ogni altra parte d’Italia. Una cosa però non posso fare a meno di rilevare. Il modo in cui è raccontato lo stato in cui versa la Città di Roma. Non so se dipenda dal fatto che io viva in provincia ed abbia seri problemi di diotrie, ma a me sembra che: dalla pulizia alla casa, dai rifiuti alle aziende partecipate, non sia cambiato davvero nulla tra l’amministrazione attuale e la precedente, anzi, in certi casi le cose sono ulteriormente peggiorate. L’unico cambiamento lo noto su come viene trattato il Primo Cittadino. Se la povera Virginia Raggi era diventata il bersaglio facile per tutti, spesso a ragione, ma non sempre, Roberto Gualtieri gode di una luna di miele, con i giornali, più che con gli elettori, molto più lunga di quanto sia consentito a qualsiasi amministratore pubblico. Tutto ciò non contribuisce alla credibilità della nostra categoria”.
Quanto stanno “nuocendo” le piattaforme social attuali sullo “sviluppo” della notizia? E quanti incidono su un fenomeno odiato da tutta la categoria come quello delle fake news?
“Il mestiere del giornalista così come lo immaginavamo noi, quando sognavamo di fare questo lavoro, o più semplicemente come si faceva fino a pochi anni fa, non esiste più. La tecnologia non ha cambiato soltanto gli strumenti o le tecniche di lavoro, ha ribaltato proprio la funzione giornalistica nella società. Domandiamoci fino a 10 anni fa quanti conoscevano vollto e voce di noi giornalisti? Praticamente nessuno. La nostra personalità, o per meglio dire, il nostro ego, era confinato in una firma, a volte una sigla, sotto un articolo. Di chi faceva radio restava ignoto l’aspetto, mentre pochissimi tra coloro che si occupavano di televisione erano concesse le ribalte della fama. Oggi ciascuno di noi fa della propria immagine uno strumento di lavoro, un po’ per restare competitivi su un mercato, quello della nostra professione, solo apparentemente aperto, nella realtà ancora sono diffusi sfruttamento e disparità di condizioni, nell’accesso e nella pratica. Un po’ perché questo proporsi direttamente tramite i social, non è solo una questione di immagine, ma ha cambiato, alcuni direbbero distorto, il concetto dell’obiettività. Siamo tutti, chi più chi meno, personaggi pubblici, e come tali esprimiamo opinioni, orientiamo giudizi, insomma, se guardiamo il panorama editoriale sono le testate identitarie, che sembrano raccogliere il favore del pubblico piuttosto che quelle storiche. Le persone hanno bisogno di sentirsi parte, di sentirsi rappresentati, anche da un giornale, una radio, una tv, o un singolo giornalista. Se a ciò aggiungiamo il fatto che, molto prima di quanto si pensi, l’intelligenza artificiale andrà a rivoluzionare la professione giornalistica, a mio avviso talmente tanto da richiedere un radicale ripensamento del suo ruolo, pena l’estinzione. Per decenni il termine giornalista racchiudeva in se quasi tutti gli ambiti della comunicazione. Oggi si parla di comunicatori, opinionisti, talent, social media manager, sfumature diverse che agli occhi della gente fanno le stesse cose, e se per le persone l’unica cosa che ci differenzia è avere un tesserino in tasca, credo che non dureremo a lungo.
Se per le persone non siamo più credibili non è colpa dei social o della viralità con cui si possono diffondere anche le fake news, dipende da noi e da come caliamo il nostro lavoro nella realtà. Fare bene questo lavoro non significa essere infallibili, credo attenga al tasso di sincerità e trasparenza con cui ci rivolgiamo al pubblico. L’ipocrisia, il doppiopesismo, la doppia morale, non aiutano e, grazie anche ai social, è più facile scoprirle”.
Tantissimi giovani si avvicinano al giornalismo, oggi più che mai. Cosa consigli loro?
“Per 5 anni, prima della pandemia, ho avuto modo di confrontarmi con qualche centinaio di ragazzi e ragazze, partecipanti ad un progetto che, con la testata che dirigo, abbiamo portato nelle scuole superiori dei Castelli Romani. Giornalista non per Caso, si chiamava, un percorso in cui approfondire i tanti aspetti della professione giornalistica, collegandolo alla crescita dei social media, ed a come questi ultimi incidano sulla nostra professione e sulla vita quotidiana di giovani e giovanissimi. La prima domanda che ponevo quando entravo in classe era: chi di voi vuole fare il giornalista? Su 20 in genere una decina scarsa alzava la mano, con una stragrande maggioranza di ragazze. Al secondo interrogativo: cosa significa per voi fare il giornalista? Le risposte che ricevevo c’entravano poco con il giornalismo e molto con l’essere comunicatori. Tradotto: per le nuove generazioni giornalisti sono tutti coloro che fanno opinione, soprattutto attraverso gli strumenti tecnologici e le piattaforme che loro utilizzano. Un concetto più vicino all’influencer che al giornalista classicamente inteso.
Un consiglio scherzoso che mi permettevo di dare loro atteneva il portafogli, perché fare il giornalista, a meno che non si è molto, ma molto, fortunati, significa passare anni senza un soldo in tasca. Presa consapevolezza di ciò, se gli fosse avanzata ancora un po’ di passione e voglia, sarebbe stato bello proseguire”.
Altro tema importante è la multimedialita applicata all’accessibilità per disabili. Come stiamo messi nella società attuale?
“Io sono un non vedente, faccio il giornalista, dirigo una piccola testata locale, e la direzione verso cui sta tendendo tutta la comunicazione passa dal prevalere delle immagini e dei video rispetto alla scrittura. Basterebbe questo per suggerirmi di cambiare mestiere non credi? Ma non lo cambierò, cercherò di adeguarmi alle evoluzioni in atto, non senza fatica, ma credo che le tecnologie e la multimedialità siano strumenti che, se usati nel giusto modo, possano aiutare a ridurre le distanze tra diverse abilità, anche nel nostro lavoro.
Il punto piuttosto lo inquadro nella capacità che la società ha di alfabetizzare le persone all’utilizzo della multimedialità. Non si può pensare che tutti debbano essere autodidatti nell’imparare a districarsi con le nuove tecnologie. Ritengo indispensabili gli investimenti nella formazione in tal senso, uniti ad una molto più capillare diffusione di conoscienze sugli strumenti e le nuove opportunità presenti già oggi, che molti non conoscono e, conseguentemente, non usano e non sanno usare. Tra loro mi ci metto anche io. La velocità con cui la ricerca mette a disposizione nuovi strumenti è talmente alta che anche i più smaliziati fanno fatica, anche tra i giovani, figuriamoci tra gli anziani, che rischiano così di restare tagliati fuori dalla vita sociale. Pensiamo alla domotica. Già oggi si possono progettare abitazioni, uffici, edifici, interamente accessibili ai disabili, fisici e sensoriali, basta avere il controllo sugli oggetti connessi in rete e si gestiscono gli elettrodomestici, l’illuminazione, persino i controlli medici di base, in gran parte usando comandi vocali. Una rivoluzione che potrebbe abbattere ogni barriera architettonica, ma che nasconde però una insidia a mio avviso. Quella che, nell’era dei devise, le persone tendano ad autoisolarsi dagli altri, avendo rapporti in qualche modo filtrati da un’interfaccia non umana. Perdere la socialità, e con essa la sfera sentimentale ed affettiva, è un tema già secondo me molto presente nel mondo contemporaneo. Da qui la necessità di non rifiutare i cambiamenti in atto, ma cercare di governarli tenendo a mente che ogni passo avanti della tecnologia debba essere accompagnato da uno altrettanto lungo nella socialità”.