di Francesco Moresi
Il 14 Febbraio 2004 a Rimini, in una stanza di albergo, moriva per overdose il noto ciclista italiano Marco Pantani. Sono passati ormai 10 anni dal quel nefasto giorno ed il ricordo del “pirata” rimane tutt’ora indelebile nelle menti dei suoi fans e di chi ha simpatizzato per quel romagnolo che con la “sua” bicicletta riuscì a scalare le cime più impervie d’Europa. Pantani però era prima di tutto un uomo e in quanto tale, anch’egli celava un animo fragile, totalmente sconosciuto ai più, che quel 14 Febbraio di dieci anni fa prevalse sulla sua notoria grinta e caparbietà mostrata in sella alla sua bicicletta. Il “pirata” era nato per pedalare, anzi per scalare montagne dalle cime proibitive, per accendere l’animo dei tifosi e per creare il “vuoto” tra lui e il resto del gruppo durante una qualsiasi tappa, sia essa in montagna o in collina, purchè con un dislivello. Pantani però, sin dall’inizio, ha sempre dovuto lottare più del dovuto per conquistare i suoi successi, combattendo contro tutto e tutti anche contro la sfortuna che lo perseguitò nei primi anni di carriera da professionista. Durante la preparazione al Giro d’Italia del 1995 venne investito accidentalmente da un’automobile, procurandogli la rottura del crociato. Il “pirata” senza abbattersi minimamente, dopo la riabilitazione, prese parte al Tour de France, nonostante una condizione atletica deficitaria, che lo penalizzò a tal punto da scontare già nella prima settimana della Grande Boucle un distacco importante dalla vetta della classifica. Ma era proprio nei momenti di difficoltà che Pantani sapeva inevitabilmente tirarsi su e prima della conclusione del Tour, riuscì nell’impresa di vincere due tappe con arrivo in salita che gli permisero di arrivare a Parigi indossando la maglia bianca, ovvero quella spettante al migliore under 23 della competizione. Nello stesso anno, il “pirata” ottenne un ottimo terzo posto al mondiale disputatosi in Colombia, alle spalle di Olano e di un certo Indurain, uno dei più forti passisti dell’epoca. Quando però la sua carriera sembrava inevitabilmente destinata ad un futuro raggiante colorato di rosa e giallo (i colori delle maglie di leader rispettivamente nel Giro d’Italia e Tour de France), l’imprevedibile ostacolò ancora una volta i sogni di gloria del “pirata” che dovette arrendersi ad un nuovo infortunio, questa volta ancor più grave del precedente. Sulla discesa di Pino-torinese venne investito da un fuoristrada che viaggiava contromano. La diagnosi fu impietosa, rottura di tibia e perone, tanto che i più maligni, immediatamente cominciarono a parlare di carriera finita, di campione sfortunato e non solo. Pantani come al suo solito si chiuse in se stesso e grazie all’aiuto della famiglia e della sua compagna, riuscì in un recupero che ebbe quasi dell’incredibile, tornando in sella ad una bicicletta dopo solamente 5 mesi e 5 giorni dall’intervento. Anche in questa circostanza, Pantani non si scoraggiò minimamente e tornando il più presto possibile sui pedali iniziò la sua personale risalita che culminerà con la vittoria di Giro e Tour del ’98, facendolo entrare indiscutibilmente nel cuore di ogni tifoso e appassionato di ciclismo, italiano e non.
Le prime soddisfazioni il “pirata” se le tolse nel Tour de France del 1997 piazzandosi al terzo posto della classifica generale al termine della competizione e conquistando la famosa maglia a pois, appartenuta in passato a grandissimi scalatori del calibro di Fausto Coppi, Gino Bartali, Jeacques Anquetil, Eddy Merckx, Miguel Indurain.
L’anno successivo, partecipò al Giro d’Italia e contro ogni auspicio riuscì a conquistare la maglia rosa mantenendola fino alla conclusione del Giro. Il “pirata” diede spettacolo in salita battendo qualsiasi avversario, primo tra tutti il russo Tonkov. Ma la vera impresa riuscirà a compierla solamente in estate con la vittoria finale del Tour de France. Nonostante accusò sin dall’inizio uno svantaggio considerevole, Pantani attese sornione la seconda settimana e con l’arrivo delle tappe alpine iniziò la sua rimonta al vertice della classifica. Nell’ormai epica tappa, con passaggio sul colle Galibier, Pantani scattò in salita a 50 km dal traguardo e pedalando senza mai voltarsi riuscì a infliggere al suo avversario, il tedesco Ullrich, uno svantaggio siderale, conquistando incredibilmente la maglia gialla. I giorni successivi Pantani, quasi insaziabile, continuò a dare spettacolo sulle montagne, scalando senza timore ogni impervia salita che gli si poneva di fronte. La tappa finale, con arrivo a Parigi, fu solo una grandissima festa per celebrare l’impresa di Marco, che riuscì a conquistare anche il cuore dei più intransigenti francesi.
Dopo aver toccato il cielo con un dito, per Pantani iniziò inesorabile un lento e malinconico declino. L’anno successivo durante un controllo antidoping, gli venne riscontrato un ematocrito del sangue superiore al 2% rispetto la soglia consentita, che gli valse la squalifica al Giro d’Italia. Iniziò un calvario senza fine, con i giornalisti che parlavano di “sogno infranto” e tifosi ingrati che lo abbandonarono perché delusi dal suo comportamento. In realtà Pantani non fu mai trovato dopato, ma quella sospensione e la campagna denigratoria che seguì nei suoi confronti, lo segnò profondamente tanto che decise di abbandonare il ciclismo, nonostante avesse ancora l’età per continuare. Nel 2000 tornò ma la sua carriera era ormai compromessa e ogni suo comportamento fuori o dentro il mondo del ciclismo era oggetto di discussione. Emblematica fu l’unica vittoria di tappa che ottenne quell’anno nel Tour de France, in cui riuscì a battere l’astro emergente del ciclismo, lo statunitense Lance Armstrong (dopato e condannato solo nel 2013 ndr). Anche in quella circostanza i più maligni sostennero che tutto fosse frutto di doping, lanciando nuovamente ombre e dubbi sul “pirata” e sul suo entourage. Pantani ormai osteggiato dalla stampa e soprattutto da tutti quei tifosi che in passato lo avevano amato e venerato, cadde in depressione, non riuscendo ad accettare questo incredibile linciaggio mediatico che di fatto lo condusse inevitabilmente al suicidio avvenuto il 14 Febbraio 2004 a causa di un’overdose di stupefacenti.
Solo adesso, negli ultimi anni, ci si è accorti dell’evidente errore commesso nei confronti di un uomo solo e fragile, un uomo che venne accusato ingiustamente per un qualcosa che in realtà non venne mai provato, un uomo che logorato dalle continue illazioni, cadde in depressione, senza mai più riprendersi. Seguirono brutte frequentazioni e l’abuso eccessivo di alcool e di cocaina, fino a quel maledetto 14 Febbraio, il giorno della morte del “pirata”. Quello per tutti sarà e rimarrà per sempre un giorno tragico e disgraziato, un giorno in cui ci lasciò uno dei più grandi ciclisti italiani, che con una bicicletta, una bandana e tanta tanta grinta riuscì a infiammare il cuore di milioni di persone.