In Turchia la vera primavera

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In Turchia la vera primavera

emma boninoL’analisi. Le nuove generazioni proiettano la fase 2.0 della rivoluzione di Ataturk. Voglia d’Europa e laicità dietro la protesta dei giovani per salvare gli alberi di Istanbul. Un movimento che continua ad allargarsi nonostante la repressione violenta della Polizia ordinata da Erdogan

Tutto è iniziato con una manifestazione di giovani di Istanbul per bloccare il progetto di abbattere 600 alberi presso il Gezi Park di Taksim, nel cuore della città, per costruirvi un centro commerciale.
A quella che lo scorso primo giugno era un’occupazione pacifica della piazza, la polizia ha risposto con la mano pesante, al punto che le cariche sono state condotte con lacrimogeni lanciati dagli elicotteri, manganelli elettrici con scariche da 40mila volt e tanta, tanta violenza; lo stesso Primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, ha ammesso casi di azioni “estreme” da parte della polizia: “Sì, è vero – ha detto Erdogan – potrebbero esserci stati degli errori, una risposta un po’ troppo estrema da parte della polizia” e dal ministero dell’Interno si è appresa l’intenzione di voler procedere contro i poliziotti che sono ansati al di là del proprio dovere. 
Ben presto, tuttavia, la protesta ha superato il perimetro della piazza degli alberi e si è trasformata in un grido delle opposizioni verso il governo che vuole trasformare la laica Turchia ereditata da Ataturk in un paese che, per ottenere un ruolo di leadership nel Medio Oriente, deve in qualche modo abbracciare l’Islam, più o meno moderato che sia, con un crescendo di restrizioni di carattere moralistico, come la recente introduzione del divieto di bere alcolici tra le dieci di sera e le sei del mattino.
E, a macchia d’olio, le opposizioni si sono scatenate in altre 67 città, in particolare a Smirne e ad Ankara, segno che dietro al fiero ritratto del nuovo sultano della Turchia c’è un paese tutt’altro che unito ed omogeneo.
Specialmente ad Istanbul, città per metà europea e per metà asiatica, da quel primo giugno le proteste non hanno conosciuto tregua: alle quotidiane carche della polizia sono seguiti i conteggi degli arrestati e dei feriti, quando non dei morti centrati dai candelotti lacrimogeni o colpiti al cranio dalle manganellate.
E poi i danni materiali, i negozi distrutti, e la borsa, che in una settimana ha bruciato un miliardo di dollari.
Pochi giorni fa, alle 7.30 di mattina, la carica di un centinaio di poliziotti è entrata in Piazza Taksim, a Istanbul, dove ha usato cannoni ad acqua, granate assordanti e lacrimogeni per disperdere i manifestanti che lì si erano insediati da giorni, ma ancora alla sera gli scontri erano in atto: “Il nostro obiettivo è solo quello di rimuovere cartelli e immagini sulla statua di Ataturk e sul Centro culturale Ataturk – ha dichiarato attraverso un messaggio lanciato su Twitter il governatore di Istanbul, Huseyin Avni Mutlu – non abbiamo alcun altro intento; Gezi Park e Piazza Taksim non saranno toccati”.
Segno di un governo che ancora non ha compreso che, forse, non si tratta semplicemente di alberi e di piante, e neppure di boccali da birra vuoti. Forse la Turchia di oggi, quella dei giovani e degli intellettuali che affollano le piazze e che scandiscono slogan contro Erdogan, preferiscono essere uguali in Europa che i primi in Medio Oriente. O, forse, siamo più semplicemente di fronte ad una nuova “Primavera Araba”.