Bomba o non bomba arriveremo a Boston

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Bomba o non bomba arriveremo a Boston

Tre morti, uno era un bambino, 180 feriti, la pista del terrorismo interno Traguardo di paura e coraggio alla corsa più antica d’America. Indagini in corso

di DONATELLA MULVONI da New York

Forse una fuga di gas, la cucina di un ristorante che ha preso fuoco. Nessuno ha pensato a un attentato dopo il primo scoppio. Ma proprio come era avvenuto l’11 settembre di dodici anni fa, solo dopo l’attacco alla seconda torre, ripreso in diretta perché le telecamere stavano inquadrando il fumo che proveniva dalla torre nord,  l’America ha capito che si trattava di terrorismo e non di un incidente. Il presidente Obama è stato molto attento nella sua prima conferenza stampa poche ore dopo le esplosioni a non usare la parola “terrorismo”. L’ha fatto il giorno dopo, specificando che chiunque sia il nemico ogni volta che viene “colpita la gente è sempre un atto terroristico”. A quattro giorni dalla tragedia che ha colpito Boston, che ha provocato la morte di tre giovani e il ferimento di 180 persone circa, le indagini non hanno portato ancora a nessun arresto. Inizialmente sembrava ci fosse un sospetto di origine saudita, era anche stata perquisita una casa, ma le autorità hanno chiarito più volte che nessuno è indiziato. Nel 1995, dopo che un camion imbottito di esplosivo si era diretto contro l’edificio federale Alfred Murrah, uccidendo 168 persone, erano bastate meno di 24 ore per far uscire un nome: Timothy McVeigh, veterano della guerra del Golfo fu il primo indiziato e poi ritenuto colpevole; nel 2001, due giorni e le autorità diedero la colpa dell’attentato ad Al Quaeda. Ci vorrà invece sicuramente ancora un po’ di tempo, prima che si possa capire chi e perché abbia voluto rovinare un giorno di festa, piazzando due bombe a poca distanza l’una dall’altra al traguardo della più antica maratona degli Stati Uniti. Terrorismo interno o islamico? Entrambi possono ritenersi plausibili: Boston è una città che fu coinvolta negli attentati dell’undici settembre, due degli aerei dirottati partirono proprio dalla capitale del Massachussetts. Ma quattro giorni fa, il 15 aprile, giorno degli attacchi, negli Stati Uniti era anche il giorno in cui si pagavano le tasse e per questo non è da escludere la pista interna. C’è anche un altro dato che rallenta l’identificazione del colpevole: gli elementi usati per costruire gli ordigni usati a Boston erano molto comuni, tanto da poter essere comprati nei grandi magazzini, come Walmart: una pentola a pressione, un po’ di esplosivo, un timer e ancora schegge e chiodi per assicurarsi di colpire a macchia d’olio più persone. La zona intorno al luogo dove sono avvenute le esplosioni è ancora bloccata. Le forze dell’ordine stanno esaminando qualsiasi indizio e hanno chiesto a chiunque fosse presente  alla maratona di fornire video e fotografie realizzate con cellulari e telecamere. Ogni particolare può aprire la pista risolutiva. Mentre chiudiamo il pezzo la Cnn riferisce che la polizia riterrebbe di aver identificato un sospetto, mentre il Boston Globe scrive che le autorità avrebbero le immagini di un sospetto che porta, e forse lascia cadere, una borsa nera, sulla scena della seconda esplosione. L’unica cosa certa di questi attacchi, tuttavia, è che il prezzo più alto l’hanno pagato i giovani: Martin Richard, era un bambino di otto anni. Aveva costretto la sorella e la madre a mettersi proprio a ridosso delle transenne vicino al traguardo, per salutare gli atleti arrivati al miglio finale. Le esplosioni hanno colpito tutti e tre. La madre ha subito una lesione celebrale, la sorella ha perso una gamba. Martin invece ha perso la vita. Krystle Campbell, aveva 29 anni. Lei alla maratona invece era andata per supportare il suo fidanzato, nell’ultimo sforzo prima di tagliare il traguardo. Si era trasferita da poco a casa della nonna, per aiutarla ad affrontare la malattia. I genitori l’hanno descritta come la figlia che tutti sognerebbero d’avere, “allegra, con un buon senso dell’humor” e un viso particolare con i suoi capelli rossi che tradiscono le sue origini irlandesi. La terza vittima invece è una ragazza cinese che studiava alla Boston University, Lu Lingzi, neanche venticinquenne. Era amante del cibo, l’ultima foto che ha postato su Facebook era quella della sua colazione. Ci sono ancora molti feriti ricoverati, alcuni di questi in gravi condizioni. Le immagini riprese in diretta dalle decine di giornalisti che si trovavano in città per raccontare uno degli eventi più seguiti al mondo, sono terribili. Lunedì a Boston era una giornata di sole primaverile, a guardare la maratona c’erano tanti bambini perché le scuole erano chiuse essendo Patriots’Day, una festa importante che ricorda il giorno della prima battaglia delle colonie americane contro la corona d’Inghilterra. I primi avevano già tagliato il traguardo, la prima esplosione è avvenuta intorno alle tre del pomeriggio. Gli ultimi corridori stavano ancora percorrendo l’ultimo miglio dedicato alle 26 vittime di Newtown, uccise lo scorso dicembre da Adam Lanza. A un certo punto un rumore fortissimo, una coltre di fumo che sale e avvolge le bandiere sistemate ai lati del percorso e i corpi degli atleti e degli spettatori a terra in un bagno di sangue. Venti secondi poi la seconda esplosione e il caos. Chi è stato, cos’era, dove fuggire…Boston a questa tragedia ha reagito con coraggio. Sono state decine i volontari che hanno prestato soccorso, numerosi medici sono arrivati a dare una mano anche da altre città, gli abitanti hanno aperto le loro case per far entrare i corridori disorientati o in stato di panico, molti ristoranti hanno offerto gratuitamente cibo e bevande. Carlos Arredondo è diventato il simbolo di questo eroismo. Attivo pacifista, si era posizionato a pochi passi dall’arrivo per riuscire a dare l’incoraggiamento finale a un ex commilitone di suo figlio, ucciso in Iraq da un cecchino nel 2004. Si trovava lì con la moglie per ricordare il loro Alexander. Dopo la prima esplosione, Arrendondo si è buttato d’istinto tra la folla per aiutare i feriti. Davanti a lui un ragazzo senza gambe immerso nel sangue. Sarebbe morto se qualcuno non avesse fermato l’emorragia. Quell’angelo è stato proprio l’immigrato della costa rica arrivato negli Usa negli anni 80. Grazie alla bandiera che gli avevano dato dopo la morte del figlio e poi un maglione trovato per terra è riuscito a creare una sorta di laccio emostatico. L’ha mollato solo dopo averlo portato davanti a un’ambulanza. Poi l’ha salutato senza neanche chiedergli il nome ed è corso indietro ad aiutare gli altri feriti. In ogni foto scattata subito dopo l’esplosione delle bombe, si intravede il suo cappello da cowboy e la sua figura piegata a prestare soccorso ai feriti. “Ho fatto quello che ho potuto. Dio mi ha protetto. Ma è stato orribile”.
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