di Daniele Priori
Enzo Jannacci a Milano, Franco Califano a Roma. Una Pasqua di passione e addii più che di risurrezione per la musica italiana. In poche ore, infatti, se ne sono andati il cantautore milanese secondo solo a Giorgio Gaber, il medico musicista
Enzo Jannacci, partito il venerdì santo per la tournée più lunga. E poi, nell’ora della veglia pasquale del sabato santo, tra le campane della sua Roma che esultavano il Gloria, in una notte di primavera bagnata, cominciava a soffiare nel vento la notizia della morte del Califfo. Il poeta della libertà, l’amatore di donne più spregiudicato e discusso, al tempo stesso autore dello splendido “Minuetto” interpretato magistralmente da Mimì Martini.
Senza regole, anarchico anche politicamente. Caro e famoso tra i boss della mala romana come nelle celle di Regina Coeli, dove è finito ben due volte, poi assolto nei processi.
La vita di Franco Califano è stata tutta un romanzo, come quella nevicata del ’56, inventata per amore della poesia e di una donna, poco più che ragazzina.
Avventure notturne, come quella autoironica con quel travestito, così femmineo ma con “du’palle come li mortacci sua…”. Concerti in piazza, come uno degli ultimi che ricordiamo a San Giovanni, lo scorso anno. Polemiche ruvide, senza rete e senza
paura. Con gli ex sindaci romani di centrosinistra, Rutelli e Veltroni che non ne avevano voluto sapere di una delle espressioni poetiche più belle del secondo Novecento romano. Mentre Alemanno sì, lui era un amico e se ne era ricordato.
Califano era così. Guardava tanto all’amicizia e poco al denaro. Era uno che per un amico arrivava e cantava gratis, in pubblico. Per passione, ancora, passati i settant’anni. E si divertiva ancora, come un ragazzo.
Negli ultimi anni aveva provato ammirazione e simpatia per Renata Polverini, la ex presidente della Regione Lazio. Che nel 2010, dopo che gli amici avevano chiesto per lui, già malato, l’applicazione della legge Bacchelli, il sussidio agli artisti indigenti, lo volle come consulente musicale ad honorem della Regione Lazio. E col sindaco di Roma lo scelse anche come testimonial nel giorno della festa della donna del 2011. Le femministe la ritennero un’offesa, lui ricordò con la delicatezza roca della sua voce che forse nessuno quanto lui aveva davvero amato le donne. E che in fondo fare l’amore con una, dieci, cento, mille donne diverse, per uno come lui, mai sposo per scelta, non poteva essere peccato. E nemmeno offesa a nessuna dignità.
Er Califfo ha sempre continuato a dividere la piazza. Non piaceva agli intellettuali e ai perbenisti. Piaceva alla gente semplice, quella capace di emozionarsi. E ai veri intenditori di poesia e musica popolare. Che oggi lo piangono come si piange una vecchia stella, mai troppo vecchia per potersi permettere il lusso di mancare alla notte col suo bagliore. Notti romane che piangono il loro Califfo.
Consapevoli che la scena della musica e della poesia capitolina non ci ha ancora regalato un profilo d’artista d’altri tempi, un poeta maledetto e romantico, unico come lui a suo modo ha saputo essere. L’artista integrale, al di là di ogni regola, che ci ha insegnato come possa essere ancora possibile vivere di musica, amore, poesia, libertà. Semplicemente perché in fondo, come ha cantato in mille suoi concerti, nel suo più famoso ritornello: tutto il resto è noia.