Si tratterebbe di un piano già in corso da parte degli jihadisti che non intendono cedere all’ingresso di occidentali nell’area. Solo un pretesto il contemporaneo attacco in Mali
Si chiama Mokhtar Belmokhtar, ha un occhio solo ed è conosciuto con il nomignolo di Mr Marlboro, per la sua fortuna fondata sul contrabbando di sigarette: è il Bin Laden del Sahara, l’uomo che ha ideato e rivendicato l’attacco all’impianto di estrazione del gas di In Amenas, nel pieno deserto algerino, a soli 60 chilometri dal confine con la Libia.
“Noi di al-Qaeda siamo responsabili di questa operazione, che benediciamo”, ha affermato in un video, facendo intendere che la lotta radicale jihadista è ormai una realtà che non riguarda soltanto terre lontane come l’Afghanistan dei talebani o la Somalia degli al-Shabaab, bensì è sempre più una minaccia concreta che attraversa il mondo arabo su due continenti e che arriva fino ai paesi del Mediterraneo, a pochi passi dall’Italia. “L’Algeria – ha continuato nel video con a fianco la bandiera nera di al-Qaeda – è stata presa di mira per avere permesso ai colonizzatori di ieri (cioè la Francia, ndr.) di utilizzare il suo terreno e il suo spazio aereo per uccidere i nostri in Mali”. Infine, ha anche chiesto in cambio del rilascio degli ostaggi la liberazione di Omar Abderrahmane, l’emiro cieco che sta scontando l’ergastolo negli Stati Uniti per l’attentato al World Trade Center di New York.
Le intelligence occidentali sono tuttavia convinte che l’assalto al complesso di In Amenas era studiato da mesi, per cui quella del Mali potrebbe essere una motivazione fuorviante, ma va detto che da almeno un anno i droni e gli agenti francesi percorrono proprio l’Azawad per monitorare la situazione, al punto che un aereo senza pilota è abbattuto il 20 marzo scorso dai miliziani del Mnla nella regione di Ouikran, non molto distante dalla frontiera con l’Algeria.
Nonostante qualche malumore internazionale per la mancata consultazione, l’azione di Algeri è stata fulminea e coronata dal successo e solo oggi, a distanza di una settimana, si conoscono i dati definitivi dei due blitz che hanno permesso la ripresa del controllo della joint venture del gas controllata dall’algerina Sonatrach (che con l’Eni estrae ‘gas shale’), dalla norvegese Statoil e dalla britannica BP, un colosso fra le sabbie del deserto che vede impegnate mediamente 700 persone provenienti da diversi paesi e che fa arrivare ai nostri fornelli ed alle nostre caldaie parte del metano che consumiamo: mercoledì 16, dopo un primo tentativo di attaccare un bus carico di operai, poco più di una trentina di terroristi armati fino ai denti si sono riversati nell’impianto estrattivo avendo in poco la meglio sui duecento incaricati della sicurezza, incredibilmente disarmati; quindi, hanno radunato i diversi operai che hanno incontrato minacciandoli con le armi e, come hanno raccontato testimoni, hanno costretto alcuni di essi ad indossare cinture esplosive intorno al collo per essere usati come scudi umani. Hanno poi piazzato mine, probabilmente con l’intenzione di far esplodere l’intero impianto, ma quasi immediatamente sono intervenuti gli elicotteri algerini per distruggere i mezzi di trasporto dei terroristi e per preparare la strada alle forze di terra, che sono riuscite a liberare in poco seicento lavoratori, per poi concentrarsi sugli jihadisti e sugli ostaggi che quelli tenevano sotto tiro.
Come in un turbine la confusione ed il panico si sono impadroniti di In Amenas, con uomini che urlavano e che scappavano, o che si nascondevano tra le tubature del gas, mentre i proiettili e le granate sfrecciavano come in un teatro di guerra.
Al momento il bilancio, ancora provvisorio, comunicato dal ministero dell’Interno algerino, è di 32 sequestratori e 23 ostaggi di diverse nazionalità uccisi, 685 lavoratori algerini e 107 tecnici stranieri liberati. L’esercito ha fatto sapere di aver confiscato “6 mitragliatrici pesanti, 21 carabine, due fucili a pompa, due mortai da 60 mm, razzi, missili, lancia granate Rpg, e 10 cinture esplosive” e di aver arrestato alcuni terroristi; dei 32 sequestratori uccisi, solo tre erano algerini, mentre alcuni lavoratori sono tutt’ora sotto torchio poiché sospettati di aver avuto contatti con gli jihadisti.
La Bp ha già fatto sapere di non essere intenzionata a chiudere l’impianto che, tra l’altro, permette la sopravvivenza della piccola comunità locale di 5mila anime, mentre le varie compagnie hanno deciso di alzare il livello di sicurezza presso le basi estrattive dell’area.
Quello di In Amenas è solo l’ultimo fatto di sangue che dimostra quanto il Sahel, ovvero la cintura sub-sahariana che va dalle coste atlantiche della Mauritania all’Eritrea, sia in fiamme: si tratta di un corridoio di traffici posti al di fuori da ogni controllo, regno indiscusso del terrorismo jihadista, dove le nazioni interessate sembrano impotenti… ovvero di un pericolo che, se sottovalutato, potrebbe rivelarsi in ripercussioni dirette o indirette sulla vicina Europa.
E.O.